giovedì 14 gennaio 2010

qué manera de ganar!

Atlético Madrid-Recreativo 5-1 (andata 0-3)

E poi non dite che non ve lo avevo detto.



«Papà, perché siamo dell’Atlético?». Forse non ci avete mai fatto caso, ma le grandi domande dei bambini – nei film, nelle fiction, e anche nella vita vera – nascono quasi sempre davanti a un semaforo rosso. Di fronte a quel segnale è come se il flusso dell’esistenza si arrestasse per un istante; un istante durante il quale i dubbi, che fino a quel momento hanno fluttuato come la neve nelle bocce di vetro natalizie, si depositano sul fondale della coscienza dando forma a interrogativi spessi e pesanti. Così, mentre papà rallenta e mette ordine ai suoi pensieri, dallo specchietto retrovisore si affaccia un visino sulle cui labbra affiorano quesiti del tipo: perché viviamo? Esiste Babbo Natale? Come nascono i bambini? Oppure, nel nostro caso: perché tifiamo Atlético?
Se non avete mai visto lo spot da cui è tratta la scena (campagna abbonamenti estate 2005), il consiglio è di andare a ripescarlo subito su Internet: (http://www.youtube.com/watch?v=8CWQEcs5R7g). Altrimenti vi basti figurarvi la faccia interdetta di un padre che, piuttosto che rispondere a una domanda simile, preferirebbe discettare di anatomia e apparati riproduttori femminili.
Il suo è un dramma comune a tutti i genitori che lasciano in eredità ai figli il tifo per la “seconda” squadra di una città, e con esso un destino di perenne e frustrante subalternità. Se invece che dell’Atlético Madrid il ragazzino fosse stato dell’Espanyol, del Torino o del Manchester City, il senso della scenetta non sarebbe cambiato di una virgola: al padre sarebbero comunque venute a mancare le parole per giustificare una scelta di campo eroica ma fondamentalmente masochista.
La differenza è che l’Atlético avrebbe tutto – stadio, soldi, utenza (è il quarto club di Spagna come numero di appassionati) – per regalare soddisfazioni ai suoi tifosi o comunque per parassitare qualcosa dalla bolla di denaro, glamour e dissolutezza in cui vivono i cugini del Real Madrid. Invece niente. Da quattordici anni, dalla stagione cioè del mitico e doblete, l’Atlético non vince più nulla. Ma nulla di nulla. In questo arco di tempo è arrivato due volte in finale di Coppa del Re (1999 e 2000, sconfitte contro Valencia ed Espanyol) e si è classificato due volte per la fase a gironi della Champions League (nelle ultime due stagioni). Stop. In compenso, nello stesso periodo è riuscito nella stupefacente impresa di retrocedere in seconda divisione con una squadra in cui giocava gente del calibro di Valerón, Baraja, Hasselbaink, Capdevila, Kiko e Chamot, e nel prodigio ancora più mirabolante di non risalire al primo colpo rimanendo all’«inferno» (così era raffigurata la serie B spagnola in un altro mitico spot televisivo) per due anni di fila.
Ma fosse solo questo il problema. Da oltre un decennio l’Atlético non riesce più neppure a vincere un derby, che rimane la ragione sociale più profonda per le squadre che vivono trentasei partite su trentotto all’ombra dei vicini di casa e che aspettano le altre due per rovinargli il prato e dare un senso alla propria esistenza. L’ultimo trionfo risale alla stagione 1999-2000, 1-3 al Bernabéu con Claudio Ranieri in panchina e Jimmy Floyd Hasselbaink nel ruolo di apriscatole. Una goduria indimenticabile, ricorda chi c’era, senonché al termine della stagione l’Atlético fu retrocesso e il Real conquistò la Champions League, manifestandosi in quel doppio tragico contrappunto l’essenza di una squadra abituata a vivere di attimi e non di epoche, di bagliori estemporanei e non di luci diffuse.
È che niente, nella storia recente dei colchoneros, sembra fatto per durare. Non i cicli o i micro-cicli, che negli ultimi anni non sono mai andati oltre periodi di due/tre mesi. Non i giocatori, i migliori dei quali hanno disertato per soldi (Hasselbaink), per disperazione (Torres; tra un po’ toccherà anche ad Agüero e Forlán) o per la dabbenaggine di chi li aveva catalogati tra i cedibili (Vieri, lasciato andare perché Arrigo Sacchi sosteneva di potersela cavare– ebbene sì – con Paunovic e Correa). Non, ovviamente, gli allenatori: trentatre dal 1987 a oggi, quanti quelli di Liverpool e Manchester United – sommati – in tutta la loro storia ultracentenaria.
Qui andrebbe aperta una lunga parentesi sul «gilismo», cioè sul dirigismo isterico e prepotente instaurato da Jesús Gil y Gil durante la sua presidenza. A differenza di tutto il resto – giocatori, allenatori, cicli – il gilismo è durato tanto. Tantissimo. Talmente tanto che è sopravvissuto allo stesso Jesús Gil – scomparso nel 2004 – infiltrandosi nelle radici di un club che ha ormai smarrito la memoria di quando lui non c’era ancora. Nessuno, nemmeno tra i più anziani, riesce a ricordare epoche di stabilità istituzionale e continuità tecnica. Al contrario, quasi tutti, a cominciare da chi lo dirige – hanno interiorizzato l’idea che l’Atlético sia un club costituzionalmente e irrimediabilmente volubile e sfortunato, come se questo facesse parte del suo dna e non fosse invece il portato di cattive gestioni e vittimismo autoassolutorio.
Da questo punto di vista, persino il famoso gol di Schwarzenbeck nella finale di Coppa Campioni del 1974 – un tiraccio da 30 metri, con papera inclusa del portiere Reina, che allo scadere regalò il pareggio al Bayern e di fatto privò i colchoneros di un trofeo già vinto (la ripetizione della gara finì con un impietoso 4-0 per i bavaresi) – anziché essere archiviato come frutto crudele del caso, è diventato mito fondativo, corpo mistico, data di nascita ufficiale di un’epopea maledetta di cui il «gilismo» rappresenta il culmine diabolico e il baratro morale. In sostanza Schwarzenbeck sarebbe stato – secondo la vulgata biancorossa – il servo di un volere superiore che quel giorno avrebbe deciso di sparigliare definitivamente le carte, consegnando l’Atlético al suo destino di frustrante e compiaciuta inferiorità.
Basta andarsi a leggere alcuni passi del bellissimo inno composto in occasione del centenario biancorosso (anno 2003) da Joaquín Sabina, il più impegnato e caustico tra i cantautori spagnoli e il più illustre, dopo il principe Felipe, tra i tifosi colchoneros. Dice a un certo punto il testo: «non perdiamo mai le staffe e non cambierei il mio Nettuno (la fontana dove l’Atlético celebra i suoi rari successi, n.d.r.) per la passerella di Cibele (dove invece si riuniscono le merengues quando fanno festa)». Ma il vero manifesto è il ritornello, in cui Sabina esalta le doti di sopportazione dei colchoneros, facendo intendere che in quello risiede la loro vera sostanza materiale e sentimentale: «che maniera di resistere/che maniera di crescere/che maniera di sentire/che maniera di sognare/che maniera di soffrire/che maniera di morire/che maniera di vincere/che maniera di vivere».
Ecco: forse il testo di quell’inno è la migliore – o forse l’unica – risposta possibile alla domanda del bambino davanti al semaforo. Un bambino a cui il padre ha fatto la tessera di socio e comprato il corredo biancorosso prima ancora di vederlo nascere e che a un certo punto della sua vita scopre che quel battesimo non richiesto è un fardello che si dovrà portare appresso tutta la vita e che lo costringerà a rispondere a sua volta a molte altre domande imbarazzanti.
Come è possibile che i campioni, quando vengono a giocare da voi, diventino dei brocchi? Come mai quelli che non diventano brocchi li vendete subito? Perché prendete sempre gol nei primi cinque minuti dei derby (è successo otto volte negli ultimi sette anni)? Come ci si sente a non vincere mai nulla? Chi ve lo fa fare di abbonarvi ancora? Come fate a essere orgogliosi della vostra diversità avendo avuto per quasi vent’anni un presidente come Jesús Gil? Non è che invece l’Atlético Madrid è una squadra uguale a tutte le altre e voi semplicemente fate finta che non sia così? Eccetera.
L’unica, per lui, sarà dunque armarsi di autoironia e rifugiarsi nei ricordi di gioie isolate e, per questo, uniche. Come quella volta che Vieri segnò dalla linea di fondo in Coppa Uefa. Come quella volta che battemmo il Real di Di Stefano nella finale di Coppa del Re e si disse che loro erano sì i più forti del mondo, ma non quelli di Spagna. Come quella volta che vincemmo la finale dell’Intercontinentale e diventammo gli unici ad avercela fatta senza nemmeno il bisogno di vincere la Coppa Campioni. Come quella volta che Pantic segnò quattro gol al Camp Nou ed eravamo contenti lo stesso anche se poi finì 5-4 per loro. Come quella volta che Agüero e Forlán ribaltarono uno 0-2 contro il Barça e regalarono un incredibile 4-3 al novantesimo. Come tutte quelle volte – anche quelle in cui non c’ero e che forse mi sono sognato – che un gol strabiliante, un’azione spettacolare, una vittoria insperata mi hanno reso orgoglioso – anche solo per un minuto, anche se sapevo che forse non sarebbe servito a niente – di tifare per la squadra per cui tifo. E non importa se l’ultimo dei nostri trofei ha quattordici anni ed è più vecchio di me, perché io ricordo anche quello. L’ho assorbito coi geni. E mio papà me lo ha raccontato davanti a un semaforo.

Da GS - Guerin Sportivo

giovedì 7 gennaio 2010

Il sequestro di SuperMario




Se le parole fossero azioni (di gioco), le dichiarazioni rese ieri da Mario Balotelli a fine partita potrebbero essere benevolmente interpretate come l'equivalente di un fallo di simulazione. Chi era allo stadio di Verona sostiene di non aver sentito alcun insulto razzista nei suoi confronti. Al massimo alcuni fischi di routine e qualche “buu” diretto a Luciano, che però è un ex interista e adesso gioca nel Chievo. Senza contare che il pubblico di Verona, di cui Balotelli si è lamentato, non è quello – famigerato – dell’Hellas, che non conosce la serie A da un decennio, ma appunto quello rionale e disperso del Chievo, duemila spettatori di media allo stadio e nessun gruppo ultrà (in)degno di questo nome.
SuperMario, insomma, ci ha provato – come, va detto, spesso gli capita di fare anche in campo – e gli è andata male. Basti dire che il presidente del Chievo Luca Campedelli, che di solito parla soltanto negli anni bisestili, si è sentito in dovere di rispondergli (“Balotelli non offenda Verona”) e lo stesso Mourinho lo ha sbugiardato (“Mario spesso dice e fa cose che non dovrebbe”), dandogli – metaforicamente, ma anche sostanzialmente – del simulatore.
Resta però il fatto che l’episodio di ieri è l’eccezione, non la regola. Di solito, infatti, Balotelli affronta davvero pubblici ostili e razzisti, e a fine partita se ne va senza proferire verbo. A Verona, per una volta, è successo il contrario, e non abbiamo il diritto di metterlo in croce, così come non mettiamo in croce Messi se, su trenta volte che provano a spezzargli una tibia, ne capita una in cui si butta per terra senza che nessuno l’abbia toccato.
Il problema, il vero problema, è aver sequestrato una persona facendone l’ennesimo vessillo di una guerra inutile, dannosa soprattutto per l’interessato. Tra chi considera SuperMario la reincarnazione di Malcolm X e chi gli toglierebbe la cittadinanza italiana, esisterà pure una via di mezzo. Essere pomo della discordia a 20 anni non ha mai fatto bene all’ego di nessuno.
Andrea De Benedetti

Da "Il Manifesto"

martedì 5 gennaio 2010

Boh(jan)



Non mi piace parlare male dei giocatori giovani, men che meno dei "canteranos", non diciamo già se sono giovani, canteranos e pure del Barça. Bojan Krkic mi obbliga però a fare una piccola eccezione. Nulla di personale e di definitivo, naturalmente, essendo la gioventù un'età flottante, un incessante surfare sulla cresta dell'ego che termina quando l'esperienza e le delusioni ti trasportano sulla riva dell'età adulta. Però ci sono giovani che crescono e giovani che sembrano regredire. Lui fa parte di questi ultimi. Uno di quelli che a quattro anni sanno già leggere, scrivere e andare in bicicletta senza mani ma che a diciannove, quando i coetanei cominciano a capire Kundera e il senso della vita, sono ancora fermi a Topolino, agli emoticon e alle sgommate nelle pozzanghere.
Scrivo questo dopo aver assistito a Barcellona-Siviglia di Coppa del Re, ma vi giuro che la partita di ieri sera non c'entra, o comunque c'entra solo fino a un certo punto col mio giudizio. È almeno un anno che lo penso, e la mia convinzione si è rafforzata la sera in cui gli ho visto segnare uno dei suoi gol più belli, contro l'Athletic Bilbao nella finale della scorsa edizione. Qualcuno ricorderà il gesto (destro a rientrare sul secondo palo appena dentro l'area), io ricordo il resto. Ricordo un compiaciuto eccesso di tocchetti d'esterno nel condurre il pallone, mentre Eto'o - solissimo - aspetta un rendez vous che non arriverà mai.
È uno di quei casi in cui un allenatore avrebbe il diritto di frustare un suo giocatore anche se ha segnato, e conoscendo Guardiola non escludo che, mentre tornavano a casa con la coppa, abbia trovato il modo per cazziarlo e imporgli come penitenza di vedere tutti i gol sbagliati in carriera da Julio Salinas.
Il fatto è che il gioco di Bojan, come quello di tutti i giocatori egoisti, funziona bene nelle squadre sfilacciate e poco solidali com'era l'ultimo Barça di Rijkaard, mentre è inutile e dannoso nella comune proudhoniana di Guardiola, dove la proprietà privata per più di tre secondi del pallone è giustamente considerata un furto. Non solo: costretto a subordinare il suo istintivo individualismo all'interesse del gruppo, Bojan non sa da che parte cominciare e soprattutto dove collocarsi per rendersi utile alla causa. Il suo habitat ideale sarebbe davanti alla porta, ma nell'utopia blaugrana non c'è spazio per parassiti d'area e prosseneti di errori altrui. Gli ci vorrebbe una squadra di puttanieri e borseggiatori di vecchiette, magari in Italia, dove il genere va sempre forte. La vita in convento, lontano dal peccato e dalle tentazioni, non gli si addice. Padre Pep lo ha già capito.